Tutti figli di un dio iperboreo
Da quando Julius Evola è apparso in Italia, le bussole dei nostri cuori puntano decisamente verso Nord. Il Nord iperboreo, da dove scesero gli Indiani e i Persiani, i Greci e i Latini, e i loro fratelli più giovani, quei popoli germanici che forgiarono l’anima e la colonna vertebrale delle nazioni europee ed europoidi, da Vancouver a Vladivostock, passando ovviamente per l’Italia.
All’inizio dell’Iliade è posta una scena gustosa, molto cinematografica. Achille adirato sta per avventarsi contro Agamennone, ma la Dea lo ferma. Tirandolo per i capelli. I pochi versi con i quali Omero scolpisce la scena assumono il loro significato sole se ci raffiguriamo Achille ad immagine e somiglianza dei giovani, dai capelli lunghi e lisci come i cantanti del rock-metal, che ancora oggi si muovono tra Uppsala, Copenaghen e Dortmund, dove sgorga la fonte vitale di tutto il nostro essere. La consapevolezza di quella fonte, persa tra le nebbie della preistoria, rappresenta una delle scoperte più preziose della nostra epoca.
Gli Iperborei dicevamo. Un mito enigmatico, a cui i nostri antichi accennarono con poche parole, un mito sepolto dal cristianesimo che per diciannove secoli ci ha abituato a voltare la faccia verso la sabbia, eppure fissato con versi monumentali da Virgilio che celebrando l’apoteosi di Cesare gli disse: “Come un dio verrai, dall’immenso mare/ e obbedisca a te, l’ultima Thule!”.
Nel passaggio di secolo, Nietzsche ancora una volta pronunciò parole profetiche, ed enigmatiche: “Guardiamoci in faccia – scrisse – noi siamo Iperborei. Al di là del ghiaccio, al di là della morte, la nostra vita, la nostra gioia”.
Gli Iperborei erano il mistico popolo che abitava l’estremo Settentrione del mondo,dove il dio Kronos, re dell’età dell’oro, dorme in uno stato di sonno profondo. Dal paese degli Iperborei secondo i Greci provenivano i mistici sapienti, come Abaris e lo stesso Pitagora; e al paese degli Iperborei annualmente faceva ritorno Apollo, il dio che più di ogni altro esprime l’anima e il volto dei Greci antichi. A far riemergere dal sonno profondo dell’inconscio il regno di Thule, ci provarono nel Novecento diversi maestri di pensiero, seguendo vie diverse. Il bramano Tilak seguì la via dell’astrologia e leggendo nelle stelle dimostrò come gli arcaici indiani che avevano scritto i Veda guardavano il firmamento da un punto di vista iper-boreale. Altri seguirono la via della paleoantropologia, altri risalirono il corso delle lingue per delimitare quella Ur-Heimat (dimora primordiale) dove un Ur-Volk parlava una Ur-Sphrache. Risalendo a ritroso la catena dei secoli, per riscoprire un mondo di primordiale purezza, Evola scelse la via del mito. Comparando le mitologie di tutto l’arco boreale (un arco più ampio di quello indoeuropeo dacché spazia dai Toltechi ai Cinesi), egli ridiede volto alla terra dell’età dell’oro, dove traeva origine il biondo Vishnu e dove ritornava il dio Apollo Le pagine in cui Evola porta luce in questo mondo sepolto sfuggono ai confini della saggistica e della mitologia comparata per volare verso i domini della poesia. Tilak, Evola, Wirth – sia pur con tutti i loro limiti – riaprirono in anni tempestosi le porte del regno di Thule. Poi gli errori che furono commessi generarono tragedie. E nel sangue delle tragedie si perdette il senso di molte conquiste del pensiero.
Quando tutto fu consumato si disse che gli Indoeuropei (termine un po’ sciocco, come sciocco sarebbe il definire gli Italiani come siculo-lombardi) avevano origine dalle steppe. Sì magari da un kolchoz slavo! Quando ogni rigore intellettuale fu perso, si disse che Ulisse era praticamente africano. Proprio Ulisse, che le saghe scandinave conoscono sotto il nome di Ull, l’arciere. Si sono dette tante cose. E molte di quelle si abbatteranno al muro del tempo. Noi oggi dobbiamo tornare a dire la verità, inseguendola sulle strade della paleoantropologia, della linguistica, del mito. Per ricominciare è prezioso l’opuscolo della Fondazione Evola intitolato Il mistero iperboreo, in cui sono raccolti gli scritti più belli di Evola sulla origine nordica del nostro mondo, uniti ad una presentazione di Alberto Lombardo che inquadra il contesto storico delle ricerche di Evola, e una conclusione di Mario Giannitrapani che aggiorna il lettore non specialista sulle ultime acquisizioni della paleoantropologia. L’Europa – a cui interessati esperti dell’O.N.U. hanno diagnosticato la morte demografica per la fine del secolo – si trova di fronte a una sfida. Alla sfida seguirà una risposta.
Alle emergenze pratiche, quotidiane che lo snaturamento dell’Europa pone, la volontà politica dei popoli del continente ha già dato risposta con verdetti elettorali inequivocabili in Austria come in Italia, nei paesi latini, come nelle nazioni nordico-germaniche. A livello spirituale la risposta sarà più lenta, ma più fruttuosa: al dilagare del fanatismo delle religioni abramitiche, l’anima dell’Europa risponde suscitando un rinnovato interesse per la spiritualità indoeuropea. Appellandoci all’ottimismo della volontà, ci sembra di scorgere già oggi segnali incoraggianti di questa risposta.
Nella riscoperta della nostra spiritualità il tema della origine nordica occupa un posto fondamentale. Gli europei di nuova generazione hanno il diritto di sapere che non sono nati dal fango come narra un mito mediorientale, ma sono tutti “figli di un dio iperboreo”, con tutte le conseguenze che ne derivano. Quelle conseguenze che probabilmente Lombardo ha voluto suggerire al lettore ponendo in terza pagina una bella citazione di Adriano Romualdi: “La scienza delle radici indoeuropee non ha un mero valore storico e antiquario. È la scienza di ciò che ci è affine e ciò che è estraneo, ciò che va accolto e ciò che va respinto. È il punto in cui si schiude l’orizzonte di una tradizione europea, una tradizione in cui ha posto anche una nuova prospettiva religiosa europea di radice nordica”. Queste parole dette da uno che è morto all’età di chi è caro agli dei colgono una essenza: la spiritualità indoeuropea non è roba da museo. Essa attende di essere espressa in parole nuove, adatte ai nostri giorni, parole che i nostri fratelli più giovani, i nostri figli di domani possano pronunciare mentre guidano automobili avveniristiche, mentre comunicano con i satelliti, mentre operano con il laser e scoprono nuove fonti di energia. Di due cose l’Europa ha bisogno per superare la crisi di passaggio dell’anno duemila: di cieli sempre più ampi per le sue scienze e la sua tecnologia, di una legge morale radicata nei suoi principi più arcaici. In modo che il futuro e il principio si chiudano in cerchio.
* * *
Julius Evola, Il “mistero iperboreo”. Scritti sugli Indoeuropei 1934-1970, quaderno n° 37 della Fondazione Julius Evola, a cura di Alberto Lombardo, con postfazione di Mario Giannitrapani, pp.96
Tratto da L’Officina dell’agosto 2002.
All’inizio dell’Iliade è posta una scena gustosa, molto cinematografica. Achille adirato sta per avventarsi contro Agamennone, ma la Dea lo ferma. Tirandolo per i capelli. I pochi versi con i quali Omero scolpisce la scena assumono il loro significato sole se ci raffiguriamo Achille ad immagine e somiglianza dei giovani, dai capelli lunghi e lisci come i cantanti del rock-metal, che ancora oggi si muovono tra Uppsala, Copenaghen e Dortmund, dove sgorga la fonte vitale di tutto il nostro essere. La consapevolezza di quella fonte, persa tra le nebbie della preistoria, rappresenta una delle scoperte più preziose della nostra epoca.
Gli Iperborei dicevamo. Un mito enigmatico, a cui i nostri antichi accennarono con poche parole, un mito sepolto dal cristianesimo che per diciannove secoli ci ha abituato a voltare la faccia verso la sabbia, eppure fissato con versi monumentali da Virgilio che celebrando l’apoteosi di Cesare gli disse: “Come un dio verrai, dall’immenso mare/ e obbedisca a te, l’ultima Thule!”.
Nel passaggio di secolo, Nietzsche ancora una volta pronunciò parole profetiche, ed enigmatiche: “Guardiamoci in faccia – scrisse – noi siamo Iperborei. Al di là del ghiaccio, al di là della morte, la nostra vita, la nostra gioia”.
Gli Iperborei erano il mistico popolo che abitava l’estremo Settentrione del mondo,dove il dio Kronos, re dell’età dell’oro, dorme in uno stato di sonno profondo. Dal paese degli Iperborei secondo i Greci provenivano i mistici sapienti, come Abaris e lo stesso Pitagora; e al paese degli Iperborei annualmente faceva ritorno Apollo, il dio che più di ogni altro esprime l’anima e il volto dei Greci antichi. A far riemergere dal sonno profondo dell’inconscio il regno di Thule, ci provarono nel Novecento diversi maestri di pensiero, seguendo vie diverse. Il bramano Tilak seguì la via dell’astrologia e leggendo nelle stelle dimostrò come gli arcaici indiani che avevano scritto i Veda guardavano il firmamento da un punto di vista iper-boreale. Altri seguirono la via della paleoantropologia, altri risalirono il corso delle lingue per delimitare quella Ur-Heimat (dimora primordiale) dove un Ur-Volk parlava una Ur-Sphrache. Risalendo a ritroso la catena dei secoli, per riscoprire un mondo di primordiale purezza, Evola scelse la via del mito. Comparando le mitologie di tutto l’arco boreale (un arco più ampio di quello indoeuropeo dacché spazia dai Toltechi ai Cinesi), egli ridiede volto alla terra dell’età dell’oro, dove traeva origine il biondo Vishnu e dove ritornava il dio Apollo Le pagine in cui Evola porta luce in questo mondo sepolto sfuggono ai confini della saggistica e della mitologia comparata per volare verso i domini della poesia. Tilak, Evola, Wirth – sia pur con tutti i loro limiti – riaprirono in anni tempestosi le porte del regno di Thule. Poi gli errori che furono commessi generarono tragedie. E nel sangue delle tragedie si perdette il senso di molte conquiste del pensiero.
Quando tutto fu consumato si disse che gli Indoeuropei (termine un po’ sciocco, come sciocco sarebbe il definire gli Italiani come siculo-lombardi) avevano origine dalle steppe. Sì magari da un kolchoz slavo! Quando ogni rigore intellettuale fu perso, si disse che Ulisse era praticamente africano. Proprio Ulisse, che le saghe scandinave conoscono sotto il nome di Ull, l’arciere. Si sono dette tante cose. E molte di quelle si abbatteranno al muro del tempo. Noi oggi dobbiamo tornare a dire la verità, inseguendola sulle strade della paleoantropologia, della linguistica, del mito. Per ricominciare è prezioso l’opuscolo della Fondazione Evola intitolato Il mistero iperboreo, in cui sono raccolti gli scritti più belli di Evola sulla origine nordica del nostro mondo, uniti ad una presentazione di Alberto Lombardo che inquadra il contesto storico delle ricerche di Evola, e una conclusione di Mario Giannitrapani che aggiorna il lettore non specialista sulle ultime acquisizioni della paleoantropologia. L’Europa – a cui interessati esperti dell’O.N.U. hanno diagnosticato la morte demografica per la fine del secolo – si trova di fronte a una sfida. Alla sfida seguirà una risposta.
Alle emergenze pratiche, quotidiane che lo snaturamento dell’Europa pone, la volontà politica dei popoli del continente ha già dato risposta con verdetti elettorali inequivocabili in Austria come in Italia, nei paesi latini, come nelle nazioni nordico-germaniche. A livello spirituale la risposta sarà più lenta, ma più fruttuosa: al dilagare del fanatismo delle religioni abramitiche, l’anima dell’Europa risponde suscitando un rinnovato interesse per la spiritualità indoeuropea. Appellandoci all’ottimismo della volontà, ci sembra di scorgere già oggi segnali incoraggianti di questa risposta.
Nella riscoperta della nostra spiritualità il tema della origine nordica occupa un posto fondamentale. Gli europei di nuova generazione hanno il diritto di sapere che non sono nati dal fango come narra un mito mediorientale, ma sono tutti “figli di un dio iperboreo”, con tutte le conseguenze che ne derivano. Quelle conseguenze che probabilmente Lombardo ha voluto suggerire al lettore ponendo in terza pagina una bella citazione di Adriano Romualdi: “La scienza delle radici indoeuropee non ha un mero valore storico e antiquario. È la scienza di ciò che ci è affine e ciò che è estraneo, ciò che va accolto e ciò che va respinto. È il punto in cui si schiude l’orizzonte di una tradizione europea, una tradizione in cui ha posto anche una nuova prospettiva religiosa europea di radice nordica”. Queste parole dette da uno che è morto all’età di chi è caro agli dei colgono una essenza: la spiritualità indoeuropea non è roba da museo. Essa attende di essere espressa in parole nuove, adatte ai nostri giorni, parole che i nostri fratelli più giovani, i nostri figli di domani possano pronunciare mentre guidano automobili avveniristiche, mentre comunicano con i satelliti, mentre operano con il laser e scoprono nuove fonti di energia. Di due cose l’Europa ha bisogno per superare la crisi di passaggio dell’anno duemila: di cieli sempre più ampi per le sue scienze e la sua tecnologia, di una legge morale radicata nei suoi principi più arcaici. In modo che il futuro e il principio si chiudano in cerchio.
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Julius Evola, Il “mistero iperboreo”. Scritti sugli Indoeuropei 1934-1970, quaderno n° 37 della Fondazione Julius Evola, a cura di Alberto Lombardo, con postfazione di Mario Giannitrapani, pp.96
Tratto da L’Officina dell’agosto 2002.